Nella città degli affetti, ovvero
con i frammenti di tutto, unico destino intatto
di Luigi Ciorciolini  

Nelle foto di Stefano David la chimica della pellicola si confronta con la materia, con il ferro, con il cemento, con il vetro e il terreno di scontro è una ex periferia, un territorio/macchina che funziona perfettamente da solo. Il paesaggio si fa mutevole, nervoso, percepibile per istanti, “dalle impressioni subitanee, nette e labili” (A. Hauser, Storia sociale dell’arte).
Il gioco delle esposizioni multiple e dei campi e controcampi fissa più istanti per rendere mobile, dinamico, mutevole ciò che come il cavalcavia è immobile.
Le foto non hanno la volontà di proporsi come paradigmatiche di un istante anzi sono proprio i paradigmi del moderno e dello stile urbano a lottare tra di loro; le esposizioni multiple non fanno Storia ma si propongono in una dimensione non documentale ed emotivamente astratta. Stefano David non rende il visibile: lo crea, lo rivela come paesaggio artificiale survoltato dagli slittamenti della macchina fotografica dove le costruzioni povere si rinforzano fino a diventare palazzi, i palazzi grattacieli e le linee si moltiplicano riaffermando il flusso e la forma.
Lo scarto della camera reintroduce lo scarto dell’immaginazione così le immagini diventano realtà proiettive, muovono l’inconscio rendendoci partecipi del fatto che i cavalcavia non vogliono più essere così: solo pratici, solo brutti, solo necessari. Vogliono contraddire l’essere periferia, si divincolano con il bianco e nero da quella maledizione marrone di Sironi che arriva fino alle pere grigie de Il deserto rosso di Antonioni con le sua modernità così invasiva.
E dove “l’architettura contemporanea, integrata all’imperativo del capitale, scopre l’impossibilità di una sua integrazione nel tessuto urbano del capitale” (M. Tafuri, Progetto e Utopia) le architetture di David, i suoi cavalcavia, invece propongono in chiave estetica la propria integrazione nella città degli affetti.

Gennaio 2006