Nelle foto di Stefano David la chimica
della pellicola si confronta con la materia, con il ferro, con il cemento,
con il vetro e il terreno di scontro è una ex periferia, un territorio/macchina
che funziona perfettamente da solo. Il paesaggio si fa mutevole, nervoso,
percepibile per istanti, “dalle impressioni subitanee, nette e labili”
(A. Hauser, Storia sociale dell’arte).
Il gioco delle esposizioni multiple e dei campi e controcampi fissa più
istanti per rendere mobile, dinamico, mutevole ciò che come il
cavalcavia è immobile.
Le foto non hanno la volontà di proporsi come paradigmatiche di
un istante anzi sono proprio i paradigmi del moderno e dello stile urbano
a lottare tra di loro; le esposizioni multiple non fanno Storia ma si
propongono in una dimensione non documentale ed emotivamente astratta.
Stefano David non rende il visibile: lo crea, lo rivela come paesaggio
artificiale survoltato dagli slittamenti della macchina fotografica dove
le costruzioni povere si rinforzano fino a diventare palazzi, i palazzi
grattacieli e le linee si moltiplicano riaffermando il flusso e la forma.
Lo scarto della camera reintroduce lo scarto dell’immaginazione
così le immagini diventano realtà proiettive, muovono l’inconscio
rendendoci partecipi del fatto che i cavalcavia non vogliono più
essere così: solo pratici, solo brutti, solo necessari. Vogliono
contraddire l’essere periferia, si divincolano con il bianco e nero
da quella maledizione marrone di Sironi che arriva fino alle pere grigie
de Il deserto rosso di Antonioni con le sua modernità così
invasiva.
E dove “l’architettura contemporanea, integrata all’imperativo
del capitale, scopre l’impossibilità di una sua integrazione
nel tessuto urbano del capitale” (M. Tafuri, Progetto e Utopia)
le architetture di David, i suoi cavalcavia, invece propongono in chiave
estetica la propria integrazione nella città degli affetti.
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